Occupiamo per vivere

La mattina di venerdì 16 maggio 1997 apro il manfo nella mediateca dell'ISU di via Clericetti, dove abitualmente si studiava tra una lezione e l'altra, tra un viaggio all Borsa del Fumetto e uno da Avalon, tra un cappuccino e un esame e un piano geniale per fare qualcosa di interessante.
Nella pagina milanese del manfo leggo della prima serata dentro un nuovo spazio occupato, Bredaoccupata. Il mio primo pensiero è stato "bastardo, f., non mi ha mica detto un cazzo". Il secondo è stato: "è il momento che aspettavo per mettersi in gioco. Vediamo che cazzo si riesce a combinare".

La sera stessa mi metto in macchina, sul tragitto che poi per un anno sarà un tragitto più che quotidiano: Milano-Meda, circonvallazione, via Gioia fino in fondo, un svolta a destra sul ponte di via De Marchi in un incrocio in cui non si capisce perché ci sia un semaforo di cui tutti se ne sbattono ampiamente. Al passaggio sullo stretto ponte della ferrovia in cui passano a malapena due auto nonostante anche la linea 53 faccia quella strada causando notevoli preoccupazioni quando vedi un autobus che ti si fa incontro minacciando di spiaccicarti sul marciapiede del ponte, sulla sinistra si vede quello che per tutti gli anni seguenti della mia vita conoscerò come "il cementone", una struttura in cemento cieca sui lati e con in cima un piano tutto di vetro e metallo di proprietà delle FS. Oltre il cementone, oltre la ferrovia, qualche casa bassa e non particolarmente notevole.
Sulla destra del ponte la casa/caserma della Polizia Ferroviaria, un palazzone anonimo e sfigato, forse costruito ad hoc per rendere gli uomini in divisa quello che sono.
Mentre si scende dal ponte su via Breda, una via che costeggia la ferrovia fino a Sesto San Giovanni, sui cui lati si stagliano fabbriche e vecchi capannoni, si intravede una grossa area dismessa sul lato sinistro della strada, un ex rimessa di camion con annessi uffici.
E' buio pesto su via Breda, l'illuminazione un privilegio scarsamente praticato nelle periferie più grigie di Milano, ma tra due finestre al primo piano della palazzina uffici che da sulla strada campeggia uno striscione: "Occupiamo per abitare, per socializzare, per vivere".

Appena si entra nell'area al civico 33 e 37 di via Breda si ha un'idea del suo uso originale, ma soprattutto della quantità di tempo da cui è abbandonata.
Il portone di ferro è solido e si apre su un cortile molto grande, sul quale si affacciano due capannoni immensi: sulla destra un capannone aperto, sulla sinistra un capannone grande la metà che include una piccola stanza tutta circondata di finestre. Appena entrati sulla sinistra la palazzina uffici a un piano e sulla destra uno spiazzo con un capannoncino in un angolo remoto, quasi invisibile nell'oscurita'.
In lontananza sulla sinistra del cortile si intravede una ulteriore porzione dell'area dismessa, ingombra di rifiuti.
E' molto buio e il grigio è sicuramente il colore predominante se si esclude l'arancione dei lampioni stradali che illuminano di sbieco parti del cortile e dell'edificio. La notte di milano è fonda e non ha stelle, anche quando non ci sono le luci della città ad ottenebrarle dal nostro sguardo. Le nubi che di giorno ingrigiscono la percezione delle cose, di notte rendono tutto un po' più oscuro di quello che sarebbe in qualsiasi altra parte. I riflessi delle luci del resto della città sono un mero surrogato della luce della luna che gettano ombre con un angolo diverso da quello celeste del satellite terrestre.

Il party techno è nella casa al piano terra, con un impianto piccolo che pompa già da diverso tempo alimentato da un generatore. Sul tavolo all'ingresso campeggiano i fluer dei party e delle iniziative della settimana successiva. All'ingresso incoccio subito in f. e gli dico "beh adesso come pensate di liberarvi di me?" e il suo sorriso in risposta è difficilmente decifrabile, anche adesso che lo conosco da ormai quasi dieci anni. Ricordo solo che suonano ff e d., ma forse anche altri che non conosco o che conoscerò solo più avanti.

Il mio ricordo di quella sera è quasi tutto qui e nelle chiacchere che seguono. Ero entrato in un mondo che non conoscevo con la solita arroganza. C'è un sacco di gente e tutti intenti a chiaccherare. Si sprecano gli aneddoti su quello che è successo prima dell'occupazione.

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Il Sonno della Ragione genera Sogni

L'esperienza di Breda per chi l'ha vissuta non può che essere percepita come un momento cruciale nella storia del movimento milanese e nella propria storia personale. Nel bene e nel male, l'esperienza di Bredaoccupata 3337 non può essere marginalizzata. Chi l'ha attraversata, chi l'ha abbandonata, chi l'ha vissuta, chi c'e' stato all'inizio e chi alla fine, e chi solo per poco: nessuno può affermare di non esserne stato profondamente formato e affetto.

Bredaoccupata è stata un momento di radicalità assoluta, la prima affermazione di una nuova generazione di movimenti a Milano irriducibile alle opzioni politiche che si erano costituite e presentate fino ad allora. E' stata un sogno generato dal sonno della ragion politica, un sogno nel senso più completo del termine, una emanazione dei desideri e delle paure, degli scontri e dell'esperienza.
Breda 3337 è stato il frutto della volontà di vita immediata, e del sogno di una politica e di una possibilità di realtà diversa da quella che ci circondava.

E' rimasta nella mente di tutti nella sua capacità di finire lasciando un segno indelebile. Poche esperienze nella vita collettiva possono dire altrettanto e chi l'ha vissuta in prima persona non può che essere orgoglioso di esserne stato parte.

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Raving

Penso fosse una notte di ottobre o di novembre, quando io, Luca, Robbo e non mi ricordo chi ci dirigiamo verso Segrate, lungo la nebbiosa cassanese, una trappola per automobilisti come solo tra le strade che da milano portano alla provincia si può trovare.

Le letture postmoderne e libertarie, la psichedelia ci aveva portato tutti inevitabilmente a vedere la creazione di zone autonome e libere come l'unica cosa che politicamente avesse un valore rivoluzionario. Le nostre teorie imperniate sul soggetto e sulla inesistenza di una dimensione oggettiva trasformavano l'esperienza nomadica e l'esperienza del rave in una dimensione perfetta in cui ogni soggetto poteva liberamente percepire e vivere una esperienza unica e libera, non riconducibile a nient'altro se non la sua volontà di essere irriducibile alla realtà oggettiva.

In una sera di un sabato di ottobre o di novembre, in ogni caso approdiamo a via Rombon, al meeting point di quello che a tutti gli effetti (se si esclude il mitico show dei Mutoids di qualche anno prima) era il primo illegale milanese, l'approdo nella fredda metropoli di una pratica che qui gia' aveva chi era pronto per accoglierla e coltivarla.
In via Rombon davanti ai mercati generali ci sono alcune delle persone che scandiranno i miei passaggi negli anni successivi: da Pablo dal naso lungo e dritto e la parlata biascicata e un po' fantasiosa nei termini giovanilisti, a Beppe , grande, grosso, matematico e definitivamente pazzo.
Da li' ci spostiamo alle lavanderie, poco oltre nella nebbia della Cassanese, dove in un capannone sulla sinistra della strada ci aspetta uno scenario meno imponente dei technival ma molto più glorioso: era un pezzo di storia in cui potevamo partecipare anche noi.
Io di quella notte ricordo solo il salone principale, la techno, il fuoco in cortile, f. e d. con cui chiaccherare del significato di quell'evento e di quello che ne sarebbe potuto derivare. Un evento ludico della cui portata politica però molte persone tra quelle che lo avevano organizzato e quelli che ne avrebbero voluti organizzare altri erano pienamente consapevoli, alla luce tremula del fuoco fatto di bancali e altre schifezze in cortile.
Era il primo rave di quello che si sarebbe poi chiamato AntiMuzakFront (o forse ci chiamammo cosi' solo dopo l'ultimo rave illegale che facemmo, mentre prima eravamo senza nome, ma con una determinazione e un desiderio inarrestabile.

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Qualche mese dopo siamo al leoncavallo, davanti al bar centrale in una fumosissima e neanche troppo fredda serata, un paio di decine di persone per organizzare il successivo rave. Sembra una riunione carbonara, per me e gli altri una sorta di battesimo del fuoco organizzativo. Non sappiamo suonare techno, non sappiamo occupare un posto, ma di certo possiamo inventarci un modo per allestire lo spazio: finiamo ad occuparci degli allestimenti.
Le seguenti settimane le passiamo a preparare diapositive modificate al proiettore, sperimentando con fiamme, liquidi chimici, colori, e immagini provenienti da scorte di diapositive arrivate da chissa' dove. Intanto recuperiamo segnali stradali, teli di plastica arancioni dai cantieri. Ogni sera era un esperienza a metà tra l'esilarante e l'adrenalina pura, in giro per le strade di Milano a tuffarsi in ogni buco della strada a recuperare pezzi suggestivi dell'arredo urbano… Un tubo, un pezzo di plastica, dei fili, dei segnali, delle corde, degli oggetti strani ma senza alcuna funzione apparente.

La sera del party siamo tutti in adrenalina pura. Il gruppo che entra per primo per aprire i cancelli viene quasi sgamato, e per un momento sembra saltare tutto. Poi arriva il segnale e ci portiamo lungo la strada buttandoci dentro la fabbrica abbandonata davanti al casello di Rho.
E' una cattedrale nel deserto, una struttura in cemento con una facciata e il tetto di lastre di vetro incorniciato da acciaio. Davanti all'edificio principale c'e' un piccolo cortile e sulla sinistra un capannone più piccolo che da anche sulla palazzina uffici a un piano solo, dentro la quale facciamo la cassa per la sottoscrizione.
Montiamo tutto, costruendo precarie pareti di celophan e improvvisati lampadari di arredo urbano, poi io mi piazzo sul tetto di una delle navate laterali della cattedrale industriale, in mano due proiettori per diapositive, e passo tutta la sera a cambiare diapo e direzionarle in varie zone della sala. Una sorta di tecnico luci privo di qualsiasi competenza ma dotato di parecchio entusiasmo.

Quando arriva la luce del mattino siamo stravolti ma non c'e' dubbio che anche questo rave sia stato una figata micidiale, e per me e gli altri del mio gruppetto di amici anche un'esperienza unica di autorganizzazione. Per la prima volta avevamo contribuito direttamente a rendere realtà il sogno di TAZ che tanto avevamo immaginato. Il salto dalla teoria alla pratica è un'esperienza inebriante, che ci lascia affamati di maggiori esperienze e di più profondi turbamenti della quiete (pubblica o privata)

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Per tutta l'estate 1996 io, Luca, Piria, Fabio, Robbo e altri giriamo in interrail passando per almeno due technival (Rotterdam e Millau) e un numero imprecisato di altri posti, compresa l'esperienza psichedelica nelle highlands culminata nella pisciata collettiva nel vuoto al di sotto di una cima ricoperta di strani muschi rossi particolarmente amata dai miei soci in lsd.
Al teknival di Rotterdam ci arriviamo via mare partendo da Londra: spavaldi partiamo senza manco un sacco a pelo pensando che tanto era agosto e faceva caldo. La notte passata a barbellare dal freddo accartocciati in mezzo ai profilattici di un castello di legno per bambini in un parco della città olandese ci ha fatto capire quanto eravamo rincoglioniti. In compenso incocciamo su una carovana di traveler inglesi che sono stati la nostra personale versione techno della fata turchina: un furgone, the caldo e anche una tenda di cerata in prestito dove rifugiarsi nelle ore che non passavamo a ballare o a fare baldoria sulla riva del canale che costeggia la e199.
Da li' ci siamo spostati nel sud della francia, sperando di trovare un clima piu' mite e in effetti i 40 gradi dello spiazzo erboso nei pressi di Millau era decisamente meno suggestivo ma anche meno ostile di Rotterdam.
In entrambi i technival la scena era simile: tende e furgoni dappertutto migliaia di watt e proiezioni che ti stordivano la retina e i timpani, in una specie di rito tribale enorme e inarrestabile, ritmici colpi di cassa che ti ipnotizzavano e ti portavano da soli a uno stato di coscienza non ordinario, in cui alcune cose erano molto più nitide mentre altre si perdevano nei meandri della parte del tuo cervello più evoluta.

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Quando torniamo dall'inter-rail hanno sgomberato Mandragora, una casa occupata in piazza Aspromonte. Di fronte alla casa murata c'e' un campeggio permanente, e le serate passano a fare assemblea o a cercare altri concerti da andare a vedere, un misto tra le prime esperienze di movimento e il desiderio di continuare la vita di tutti i giorni.
Non mi ricordo quanto tempo passa prima che reincontro f. per caso a cascina monlué, anzi per la precisione disperso per le vie laterali di CAMM alla ricerca della mia macchina. Tra una frase e l'altra, carpisco qualcosa di rilevante che mi stampo nel cervello.
– Come butta?
– Tutto bene.
– Ma vi siete ribeccati?
– Più o meno
– E diocane potevate anche chiamarmi…
– Guarda se tutto va bene occupiamo
– Beh fammi sapere che ci vengo anche io…

F. non sapeva che aveva scritto la sua condanna a reincontrarmi per il resto dei dieci anni successivi. Forse non me lo avrebbe neanche accennato se lo avesse saputo.
Qualche mese più tardi, quando leggo del primo parti di un nuovo spazio occupato, ha inizio una fase completamente nuova della mia vita, mentre mi tuffo dalle prime esperienze esistenziali in una esperienza politica a tutto tondo.
Era il maggio del 1997

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Vite disperse

Nel 1995 io ero un pischello di 19 anni, uscito dalle superiori di un comune in provincia di Milano, mi ero catapultato nella dimensione universitaria, di fatto troncando ogni rapporto con chi mi aveva conosciuto nel quinquennio del liceo linguistico. La linea di continuità con il mio passato erano sostanzialmente le persone con cui suonavo musica psichedelica e free jazz, e quelle con cui mi ritrovavo a giocare di ruolo una sera sì e l'altra anche.
Della politica fatta durante il periodo delle superiori rimanevano vaghe infarinature: slogan, cortei, una fumosa percezione di un coordinamento studentesco che aveva il suo epicentro a Milano e che a Paderno non se ne capiva un cazzo, la prima autogestione mai organizzata al Gadda, la sensazione di continua altalena tra delusione per gli esseri umani che mi circondavano e la speranza di trovare forme di vita diverse da quelle ordinarie.

La mia prima e unica interazione con i centri sociali risaliva all'inizio degli anni Novanta: Sara mi da' appuntamento al Leoncavallo ancora in via di ricostruzione dopo lo sgombero del 1989. Ricordo l'enorme scritta a Fausto e Iaio sopra l'ingresso, ricordo il capannone sporco e un bar nell'angolo a sinistra in fondo. Era estate, non so piu' che anno fosse, e ricordo che al centro del centro sociale ancora mezzo distrutto, in mezzo alle macerie sul fondo del capannone c'era una specie di fontanella ricavata da una pezzo di cemento con una sbarra infilata dentro a cui era appoggiata una canna dell'acqua.
Io non ne capivo un cazzo e mi sembrava solo un posto un po' delirante e in generale era obbligatorio difenderlo, almeno a me sembrava cosi', intuitivamente, senza capire bene neanche perche' difenderlo.
L'interazione successiva sarà solo il 10 settembre 1994, nel corteo che segnera' i rapporti di forza dei successivi dieci anni di movimento a Milano: diecimila persone in strada determinate a tutto. Io all'epoca non capivo un cazzo e mi sono perso i migliori scontri che avrei potuto vedere a Milano per molti anni.
Quando il corteo arriva in piazza Cavour io manco a dirlo mi porto davanti, curioso come un cretino di quello che stava succedendo. Mi ricordo solo un momento di silenzio, seguito da un mormorio che diventava rombo e poi ricordo l'odore dei lacrimogeni, qualcosa di nuovo per un diciottenne che non si era mai avventurato fino a quel punto in un corteo teso. Al massimo qualche ruolo da pseudo capopopolo in uno spezzoncino di un corteo studentesco, quattro grida al microfono e poco altro.
Dalla mia postazione sull'aiuola che sta proprio al centro di piazza Cavour (quella triangolare di quel semaforo incomprensibile al centro di quell'incrocio a 5 vie) vedo solo fumo, sento grida e vedo gente che parte di corsa. All'epoca non ero nelle condizioni di apprezzare tutto ciò, e il mio istinto mi fa correre a gambe levate in direzione di Palestro e poi verso Buenos Aires.
Non ricordo neanche che cosa pensai all'epoca di tutto ciò, ma ricordo che l'anno dopo il leoncavallo era già in via Watteau ed era una delle mete per passare le serate con gli amici che si facevano le canne e cospiravano rispetto a progetti musicali ed esistenziali.

Penso di essere uno dei pochi esempio in cui le posizioni politiche si sono andate radicalizzando nel corso degli anni, anziché sopirsi con la moderazione dell'età avanzata. All'alba dei 19 anni, al primo anno di università ero convinto che ci fossero parecchie cose da fare e politicamente disilluso rispetto alle dimensioni elettorali e non movimentiste, mentre quando avevo 10 anni ero forse poco più che un ragazzo agitato che vedeva nel PCI e nella FGCI una prospettiva politica radicale. Mi rendo conto che con il senno di poi è imbarazzante ma questo è quello che mi passava per il cervello all'epoca.

Durante il primo anno di università io e un po' di compagni di corso iniziamo a frequentare l'aula IV, non solo l'aula, ma anche quello che rimane del collettivo che l'aveva occupata nel 1995… Non molto a dire il vero, ma abbastanza per darci il brivido dell'autogestione.
Contemporaneamente con un po' di gente produciamo i primi demo di free form e una zine di scritti sempre molto free form e un po' freakkettona nichilista chiamata aleph, con tanto di esperimento di teasing per pubblicizzarla, e festa di lancio in aula IV.

Il nostro gruppo era dominato da due tendenze: la lettura dell'Internazionale Situazionista e la tesi dell'inesistenza delle cose oggettive. La teoria era un po' questa: ogni cosa è determinata dalla percezione soggettiva di chi la osserva o la vive, ergo non esistono descrizioni oggettive né tantomeno una realta noumenica in quanto tale. Tutto è percezione, tutto è interpretazoine, tutto è creazione.
Una posizione un po' "artistica" ma che raffinata si inserisce perfettamente nel postmodernismo che all'inizio degli anni Novanta muove i suoi primi passi sia nelle filosofie "di movimento" che negli ambiti artistici e culturali.

Con questa masnada di pazzi scriteriati a caccia di esperienze esistenziali organizziamo il primo vero evento autorganizzato della nostra storia: la festa di Aleph all'Aula IV. Con la Rover 113 (che poi finira' spalmata contro un palo a causa della maledizione di f.) vado a prendere le birre heiniken in lattina, a 40 all'ora per evitare di lasciare la marmitta per terra, mentre Luca, Andrea, Marco e un tot di altri vanno a prendere gli strumenti e allestiscono la sala.
Il palco sono quattro bancali buttati per terra, le luci due lampade di quelle gialle/rosse/verde che si trovano al mercato da mettere come pesudo discoteca nella taverna dei nonni. C'e' un bordello di gente, totalmente inaspettata, centinaia di persone che si sorbiscono un'ora e mezza di free form stridente inaugurata e conclusa con l'unico pezzo strutturato del gruppo (all'epoca non ricordo se ci chiamavamo ancora Green Sunflower o gia' Embryonaler Schwamm) dall'altisonante nome di Beer Milkshake.
La gente parla, fuma, chiacchera, invade l'università mentre io e qualcun altro responsabili della serata ci facciamo beffe del bidello che non sa che pesci pigliare. Alle 2 di notte chiudiamo, il bar ha finito la birra, abbiamo recuperato i soldi e anche pagato la stampa di Aleph, e forse anche messo via qualche soldo che poi finirà chissà dove.

Ed è in quest'anno che entro in contatto con i contenuti che domineranno la prima parte della mia esperienza politica: la psichedelia, i testi di Terence McKenna, il Cyberpunk, i testi della Shake, di Gibson, le TAZ di Hakim Bey, la rilettura dell'Internazionale Situazionista, Altrove, la Nautilus, il fenomeno della musica elettronica. Un percorso in cui si incontravano all'epoca molte persone che poi avresti ritrovato in molti percorsi.
Ed è nel 1995 e forse in parte del 1996 che passiamo le nostre serate al Leo, nel cortile, isolati in un angolo a complottare e rimuginare su tutti i progetti che si stavano costruendo, su una fase esistenziale che di lì si sarebbe trasformata nella piena fase di sperimentazione politica. Un gruppo di persone che con la politica dei centri sociali non c'avevano mai avuto a che fare, ma che raccoglievano la logica della sperimentazione di nuove forme di vita e di socialità come una boccata d'aria fresca di fronte alla prospettiva di una vita ordinaria.

Nel 1995 l'alternativa alle serate al Leo erano le serate al Tunnel, un concerto via l'altro a 10 euro all'anno. Una svolta. Il posto non era il massimo pero' sicuramente offriva qualche possibilita' prima di diventare un covo di security e rotture di cazzo, una volta imitato da Binario Zero e un paio di altri locali, che si bruciano la piazza l'un l'altro.
Nell'antro scuro e fumoso di via Sammartini sotto i binari della stazione, mentre gli altri bevono birra e io una coca cola (erano gia' diversi anni che non bevevo alcool per una specie di decisione che ormai si perdeva nella mia adolescenza e che forse non aveva altri motivi della mania di essere sempre in controllo della situazione), incontriamo il flyerino che ci lancia in mezzo a quella che sarà forse la prima svolta decisiva della mia esperienza e dell'esperienza di quegli amici che condividevano quella fase di avanscoperta del mondo sociale e politico con me: non ricordo se me lo diede Pablo, un ragazzo che conoscevamo dall'auletta in Statale oppure qualcun altro. Fatto sta che era quello che a Milano tutti quelli come noi aspettavano: un rave illegale.

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Introduzione

Non sta a persone come me, nate a metà degli anni settanta, raccontare le vicissitudini delle generazioni che hanno cercato di lottare e di costruire movimenti negli anni ottanta.

Il pezzo di storia che possiamo raccontare comincia a metà degli anni novanta, per alcuni qualche anno prima, per molti qualche anno dopo. E a Milano come in altri posti è un periodo complicato in cui molti pezzi di storia dei movimenti scompaiono lasciando dietro di sé solo le proprie leggende e qualche essere umano, qualcuno capace di evolversi, qualcun'altro capace di involvere la realta' intorno a sé.

Le leggende non ci sono bastate a tramandare il meccanismo con cui costruire dei movimenti e con cui interpretare le lotte. La generazione degli anni novanta ha dovuto improvvisare, sospesa tra parole e slogan di vent'anni prima, scazzi di dieci anni prima, e il mondo in trasformazione in cui viveva, nel quale l'economia e la geopolitica degli anni ottanta maturavano in frutti amari ma il cui albero era tutt'altro che scontato.

Affacciandosi alla fine del millennio, i compagni e le compagne degli anni novanta si sono dovuti inventare un modo di fare politica nuovo, che affrontasse le contraddizioni attuali e che fosse in grado di non incagliarsi in riedizioni del passato o in futuri improbabili e peraltro parecchio distopici.

Per questo pensiamo sia interessante raccontare un pezzo della nostra storia, senza pretesa di esaustività, né pretendiamo che questi testi rappresentino l'unico punto di vista su quegli anni. Solo la rappresentazione simultanea di tutti i punti di vista di chi ha vissuto quei giorni e quei mesi potrebbe rendere merito alla complessità di tante vite che hanno attraversato quei momenti. In assenza di questo caledoscopio storico, il massimo che possiamo offrire é un insieme di visioni situate, che messe in relazione tra loro forse saranno capaci di comunicare tutto quello che ha significato per noi che le abbiamo vissute, e forse anche per chi le ha subite o intraviste nelle nebbie delle vite che non si toccano in una metropoli.

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